Quali sono le origini delle tendenze fast-fashion e ultra fast-fashion? Lo spiega un viaggio attraverso tre generazioni di aziende.
Quando sentiamo il termine fast-fashion spesso tendiamo ad accorpare tutte le marche appartenenti a questo modello di business, come se appartenessero ad una grande famiglia.
Come in ogni famiglia anche qui possiamo delineare caratteristiche che li accomunano e altre che li distinguono e possiamo delineare membri di diverse generazioni.
A capotavola vediamo i capostipiti, coloro che misero letteralmente le fondamenta di questo nuovo volto della moda. Le grandi aziende, come Inditex e H&M, con la loro capillare distribuzione a livello planetario, i loro negozi ancora presenti in innumerevoli high street dei vari continenti.
Poi si vedono i mezzani, i vari Bohoo e Missguided, arrivati sull’onda della rivoluzione digitale. Infine la spericolata ultima generazione, la famigerata ultra fast fashion di Shein e Temu.
Tutti nomi così familiari, presenti nel nostro quotidiano… ma cosa sappiamo veramente di loro?
Definizione di fast-fashion, le origini
Il termine fast-fashion appare per la prima volta il 31 Dicembre 1989 sul New York Times. Anne-Marie Shiro descrive due nuovi negozi apparsi sulla scena newyorkese, in
Lexington Avenue, Compagnie Internationale Express e Zara. Entrambi i negozi, Shiro scrive, catturano l’attenzione di giovani seguaci della moda che cambiano abbigliamento alla stessa velocità con cui cambiano il colore del loro rossetto.
Juan Lopez, in quel periodo responsabile di Zara USA, spiega come la merce cambi ogni tre settimane, in una continua rincorsa all’ultimo trend. In soli 15 giorni una nuova idea si trasforma in merce disponibile nei negozi.
Fondata da Armando Ortega nel 1975 Zara poteva già vantarsi. Nel 1985 nasce il gruppo Inditex che riunisce, tra gli altri, Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka e Stradivarius. Nel 2023 Inditex ha registrato un fatturato di 36.000 milioni di euro.
Ma Zara aveva una storia.
Attori principali della prima generazione
Nel 1947 Erling Persson apre il primo Hennes & Mauritz (H&M) in Vasteras (Svezia) e tra il 1960 e il 1979 la compagnia aprirà quarantadue negozi in Europa.
Negli anni 60, la moda inizia a muoversi rapidamente, i giovani iniziano a rifiutare gli abiti su misura e ad abbracciare vestiti economici. Per poter stare al passo con la crescente richiesta di pezzi nuovi e con i trend sempre più volatili, le compagnie iniziano ad esportare la fabbricazione in Paesi lontani dall’Europa, alla ricerca di manodopera a basso costo.
In quegli anni vedremo la nascita di altri due colossi del fast-fashion: Topshop nel 1964 a Sheffield (UK) e Primark nel 1969 a Dublino, Irlanda.
Negli anni ’80 e ’90 la loro strategia di produzione di abiti economici si espande sempre più, rendendo ognuna di queste compagnie (oltre a Zara dal 1975 e Forever 21 nata a Los Angeles nel 1984) colossi multinazionali con una capillare diffusione in Europa e, dagli anni ’90 e 2000, anche in USA.
La seconda generazione: cavalcando l’onda digitale
Intorno all’anno 2000 inizia a prendere sempre più piede l’e-commerce e diverse compagnie di abbigliamento iniziano ad espandere la loro presenza globale.
Pochi anni dopo, nel 2006, inizia l’ascesa di una delle compagnie simbolo della nuova fast fashion digitale, Bohoo.com. Nata negli anni ’90 come fabbrica tessile per i grandi nomi del fast-fashion, dal 2006 inizia a vendere i propri prodotti direttamente al pubblico, lanciando un negozio online.
Grazie a costi di produzione molto bassi la maggior parte delle spese può concentrarsi sul marketing. Nello specifico su un nuovo tipo di marketing: online, con micro pubblicità in YouTube e, più tardi, Instagram.
Cavalcando in modo ottimale l’avvento dei social media, la compagnia riesce a raggiungere il pubblico ideale per i suoi prodotti e il successo è immediato.
Per continuare però a stare sulla cresta dell’onda Bohoo e i suoi concorrenti (tanti originari da simili background e posti, da Manchester e dintorni) devono cambiare il modello di business della fast-fashion.
Se prima Zara era considerata rivoluzionaria, offrendo centinaia di nuovi prodotti alla settimana, loro ne offrono ora migliaia.
Ultra Fast-Fashion
Questi brand creano un’esperienza di shopping che abitua il cliente ad aspettarsi costantemente delle novità a prezzi bassissimi, una presenza online non stop e una incessante varietà di modelli. La sensazione è che questi capi appaiano magicamente dal nulla, che si possa acquistare e ricevere ogni cosa in modo rapido.
Da veloce la moda diventa quindi Ultra Veloce, con ritmi e tempistiche assurdamente ridotti, prezzi innaturalmente bassi e quantità atrocemente elevate.
Tutto questo porta a delle conseguenze pesanti sia sull’ambiente che sulle persone coinvolte nella produzione di questi capi. Anche quando alcune marche decidono di riportare parte della loro produzione in Occidente, vengono scoperte condizioni di lavoro intollerabili e lavoratori sottopagati.
Con l’avvento delle nuove super compagnie di origini asiatiche come Shein, la situazione è peggiorata ulteriormente. Le cifre diventano stratosferiche e fuori controllo, con quantità tra gli 80 e 100 miliardi di nuovi capi riversati sul mercato ogni anno, con circa 6mila nuovi capi ogni giorno al prezzo medio di 7$.
Se il ruolo della pubblicità online e dei vari influencers mostrando i loro acquisti in video in YouTube sono parte integrante del successo della seconda generazione, la Ultra Fast Fashion si affida, invece, soprattutto ai Social Media più immediati come TikTok.
Questo comporta un incremento esponenziale anche della velocità di interazione con il pubblico. Oltre alle live sales e ai giochi online, gli utenti sono costantemente resi partecipi ed invitati a comprare in modo quasi ludico.
Esperienza virtuale
Perdendo quindi il contatto con la realtà, lo shopping è ormai diventato un’esperienza virtuale per i consumatori e un business model sempre più redditizio per le compagnie coinvolte.
Senza che i clienti si accorgano o tengano conto delle conseguenze di questa folle corsa agli acquisti e alla produzione, accumulando in modo sfrenato accessori o abbigliamento monouso.
Come vivere, appunto, in un video game, una corsa ad ostacoli ad avere l’ultimissimo trend.